Cronaca

Il "clan" della Valle dell'Irno: la Cassazione conferma e riconosce l'associazione mafiosa

I giudici della Cassazione hanno confermato le sentenze di primo e secondo grado, riconoscendo l’esistenza di un clan vero e proprio e rigettando i ricorsi proposti dalle difese degli imputati

«Immediata consapevolezza della diffusione dell’esistenza di un sodalizio criminale con cui era necessario fare i conti, con le persone offese intimorite alla sola evocazione del nome di P.D.»: così la Cassazione sull'inchiesta condotta dall'Antimafia nel territorio dell’Irno, con epicentro a Mercato San Severino, dove il gruppo che faceva riferimento a P.D. , consumava i suoi affari illeciti. 

La pronuncia

I giudici della Cassazione hanno confermato le sentenze di primo e secondo grado, riconoscendo l’esistenza di un clan vero e proprio e rigettando i ricorsi proposti dalle difese degli imputati e del procuratore generale, rendendo definitive le stesse sentenze emesse dalla Corte d’Appello di Salerno nel settembre 2019. La ricostruzione parte dall'accusa principale, quella di associazione a delinquere di stampo mafioso, dove lo stesso P.D., paganese confinato fuori dai confini dell’Agro nocerino su disposizione del clan Fezza-Petrosino D’Auria, avrebbe cercato di imporsi. «Il soggetto proveniente da Pagani», scrivono i giudici, «già intraneo ad ambienti delinquenziali organizzati e particolarmente pericoloso, insediatosi a Mercato San Severino e circondatosi ben presto da un gruppo dedito alla commissione di reati, si era affermato come egemone anche a scapito di altri». 

I ruoli

Sui ruoli degli altri imputati, la Cassazione ha richiamato la cosiddetta «messa a disposizione» per testimoniare la dichiarata adesione al sodalizio, accrescendo la forza di intimidazione e infiltrazione nel tessuto sociale. «Il ruolo di promotore del sodalizio per P.D. riguardava l’ideazione di ogni attività, che partiva sempre da lui, che aveva fissato presso la sua abitazione la sede del sodalizio, dove si discutevano strategie e venivano portate al suo cospetto le vittime, in ossequi ad un cliché tipico e consolidato della malavita organizzata». Il maggiore degli imputati era visto e inquadrato come "capo", ma non potendo gestire in prima persona l’attività di spaccio dai domiciliari, con documentate grandi disponibilità di sostanza stupefacente, e iniziativa del gruppo, si sarebbe affidato a M.V. , come testimoniato dalle intercettazioni eseguite presso casa del "boss", dove sfilavano i complici e i riferimenti principali della cosca, con l’esistenza di una cassa comune. E le vittime venivano convocate in casa sua, se c'erano problemi di qualsiasi tipo, a testimoniare così l’esistenza di un gruppo criminale in grado di agire con una potenza intimidatrice di violenza: a essa si associano disposizioni ulteriori, come il favoreggiamento della latitanza del pregiudicato V.S. , “pagato” dal gruppo, e le nomine di avvocati, i pagamenti per ottenere ritrattazioni, i riferimenti sul territorio per acquisire informazioni e pretendere commesse in denaro dagli imprenditori. 

I ricorsi

Il rigetto della Cassazione ha riguardato ben otto posizioni, mentre la dichiarazione di inammissibilità altri otto imputati. La sussistenza dell’associazione mafiosa era stata ribadita già dai giudici di appello nelle motivazioni del secondo grado, dimostrata «dagli approcci alle vittime preceduti da attentati, dalle richieste con forme apparentemente affabili e brusche imposizioni, evocando l’esistenza di un gruppo criminale, facendo ricorso a forme tipiche della criminalità organizzata». Le frasi riferite tra i sodali del boss erano chiare: «P. vuole i soldi e basta, non vuole sapere niente. Le persone che io rappresento e che appartengono alla malavita vogliono 15mila euro da te. C’è un amico uscito da poco bisogna dargli un regalo. Così voi lavorate e noi stiamo tranquilli. Digli a tuo padre che non sa ancora con chi ha a che fare e chi sono io, glie la farò pagare». 


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